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martedì 29 marzo 2011

Lacrimosa - Alleine zu zweit



Ecco quel succedeva. Che una canzone che avevo associato per mesi e mesi alla felicità più sfrenata, alle passioni nascenti e nate, ed all'amore senza senso, vitale, tragico, fisico, mentale, onirico, che una canzone che faceva sorridere, ridere e persino versare lacrime di soddisfazione ubriaca, che una canzone che sentivo tornando in bicicletta, dopo che c'eravamo scambiato l'ultimo bacio alla stazione, prima che il maledetto treno delle 22.14 la riportasse a casa, che una canzone che mi riempiva le vene di sangue viola, ed i polmoni di fumo blu, ora altro non fosse che un accumulo di suoni letali che NON potevo più sentire.
Ogni nota penetrava la carne. Ogni parola riportava la mente alle antiche soddisfazioni. Ogni accordo erano corde che mi stringevano il collo, senza che potessi più respirare. Ogni strofa era la maledizione che dovevo portare sulle mie stanche spalle, senza che si (intra)vedesse la fine dell'odissea.

E, come dice qualcuno di saggio, non c'è maggior dolore che il ricordo della felicità passata. E allora i verbi tedeschi diventano parole da non pronunciare. Il motivo della canzone qualcosa da dimenticare. I momenti in cui la ascoltavo vanno lentamente ed inesorabilmente cancellati, son sabbia sotto i colpi delle onde del destino.

Am Ende der Wahrheit
Am Ende des Lichts
Am Ende der Liebe
Am Ende - da stehst du
Nichts hat überlebt
Wir haben schweigend uns schon lange getrennt
Und mit jedem Tag wir
Wuchs die Lüge unserer Liebe
Und je weiter wir den Weg zusammen gingen
Desto weiter haben wir uns voneinander entfernt


Il ritornello perfora quelle poche certezze che ho accumulato nei mesi e nelle settimane. E finisce che mi ritrovo a bloggare sempre delle solite cose, ma connesse con posti diversi, canzoni lontane e sguardi persi nel vuoto.

Tanz - mein Leben - Tanz
Tanz mit mir
Tanz mit mir noch einmal
in den puren Rausch der nackten Liebe




Ps

Testo, e traduzione in italiano, qui.

domenica 27 marzo 2011

The Social Network



Come Mark Zuckerberg si è ritrovato da nerd (un po' sfigato) di Harvard ad essere il più giovane miliardario della storia, attraverso la creazione di (the) Facebook.

Partiamo dalla fine: il film di Fincher (7even, Zodiac, Fight Club) è ottimo, uno dei migliori del 2010 (assieme a Somewhere e Inception). Ritmo incalzante, dialoghi scoppiettanti, ben diretto, attori ottimi, colonna sonora perfetta (ci sono i Beatles, addirittura!). Avrebbe meritato di più dei 3 premi Oscar tecnici che ha vinto.  E' un peccato che in Italia, sia stato venduto come il film su Facebook: non c'entra nulla.
E' un film, infatti, sulla vendetta, sul complesso di inferiorità, sulla nuova economia, sulla lotta di classe. E sulla solitudine. Facebook non c'entra nulla, è solo il mezzo attraverso il quale Fincher racconta la storia di Zuckerberg.

Il conflitto con i Winkelvoss (che rifacciano a Mark di avere rubato loro l'idea del social network) non è meramente economico, o sulla proprietà intellettuale di Facebook. E' una lotta di classe. E' la guerra tra la nuova economia tecnologica e quella vecchia dei codici legali e del capitalismo d'una volta. Sono i nerd che mettono all'angolo gli yuppies. E' il computer di Palo Alto che distrugge l'ufficio di rappresentanza a New York.
La guerra legale con l'ex amico Eduardo nasce prima di tutto per l'invidia che Zuckerberg prova nei suoi confronti. Non perché più intelligente o più ricco, ma perché, semplicemente, più integrato di lui. Più a suo agio con le donne. Più cool. Non sono, ancora una volta, i soldi, a muovere Mark, ma il suo desiderio di vendetta. La sua voglia di scalfire le regole vigenti sull'accettazione sociale. Chi l'ha detto che i canottieri, o gli adepti di un club di Harvard, debbano essere migliori di un nerd che usa solo pc Apple?

Ma è anche un film sull'amore e sulla solitudine. L'impacciato geek (a tratti un  po' sociopatico) di Harvard, crea Facebook prima di tutto per vendicarsi della propria (ex) ragazza. Non è mosso dai soldi o dal potere, ma dalla sempre necessita di affermarsi socialmente, di legittimare la sua esistenza. Di provare alla ragazza che lui è in grado di farcela, di arrivare. Che ha fatto una scelta sbagliata, scaricasndolo.
Ci sono due scene chiave nel film che testimoniano la solitudine di Mark e la forza del suo (non) rapporto con la sua ex fidanzata. La prima si svolge in discoteca: Sean Parker (un credibile Justin Timberlake) gli racconta di come abbia fondato Napster per vendicarsi della sua ex ragazza. Zuckerberg gli chiede allora: "e poi, come è andata, con lei?" "Lei chi?". Mentre in Parker il desiderio di vendetta è fermo alla mera cinica soddisfazione per il successo ottenuto, sembra che in Zuckerberg ci sia qualcosa di più profondo. Sembra, sopratutto, che si comporti ancora da amante tradito. Che malgrado tutto, non riesca a diventare davvero un uomo senza emozioni. Come gli dice l'assistenza legale: "Non credo che tu sia uno stronzo, credo che ti piaccia comportarti come tale".
La seconda scena chiave, è il (meraviglioso) finale. Il fondatore di Facebook si decide finalmente a "chiedere l'amicizia" alla sua ex Ragazza. E rimane lì, ad aggiornare costantemente la pagina, in attesa della risposta.  Il miliardario più giovane della storia, è, in fin de' conti, un uomo profondamente solo.

Voto: 8/10


Ps

Ogni volta che vedo questo film penso ad A.
Penso a quando taggavamo foto sceme.
Ci mandavamo msg privati senza senso.
Penso che attraverso Fb, più di Twitter, era possibile ricostruire ogni evoluzione del nostro rapporto. Graz, Budapest, Venezia, Brasile, Italia, Germania, Rep Ceca.
Penso, davvero, sia amaro, la persona che ha contato di più nella mia esistenza, non esista più.
Penso, che sia triste, e senza senso, il modo ridicolo in cui sia finito tutto.
E che un titolo perfetto per la mia vita, potrebbe essere: "La tragedia di un uomo ridicolo"

sabato 26 marzo 2011

Il compleanno di Elisa


Erano le 21. C'era lo sciopero dei treni. Il mio, per Udine, doveva partire attorno alle 22.40. Non le avevo detto nulla, sarei andato a trovarla senza invito, senza avviso, senza preamboli. Non sapevo ancora se il treno sarebbe partito. Mi ero stancato delle telefonate. Poi, allora, mica c'era skype o gtalk. Avevo mangiato a casa di mio padre, non troppo, e bevuto una birra. Mio padre mi aveva detto che non era il caso di farsi la seconda. Poi eravamo andati in stazione. Orde di passeggeri accampati per i corridoi. Avevo cercato con ansia il nome del mio treno sul tabellone delle partenze: non era ancora stato digitalizzato, ma era di quelli che con le letterine che girano, ed a poco a poco compongono orari, nomi di stazioni, sogni. Ed eccolo, era apparso. Come si chiamava? Canova, forse. Ero salito. C'era una ragazzo napoletano che andava a trovare la sua fidanzata a Bologna. Un tipo di colore che andava a Pordenone. Un prete che viaggiava con una scolaresca, o forse erano ragazzi dell'oratorio.
Mio padre m'aveva salutato un po' inquieto, ed il treno, s'era mosso. Viaggiavo per la prima volta completamente solo. Di notte. Avevo deciso che avrei fatto i maledetti 600 km, per andarla a trovare. Bisognava battere e levare, prendere la situazione di pugno, no? E poi' avevo dato la maturità qualche giorno prima, cosa mi sarebbe mai potuto succedere?

***

Un ragazzino che viaggiava col prete leggeva un libro sui nazisti. Anzi faceva finta di elggerlo. Il ragazzo napoletanao fremeva dalla voglia di arrivare a Bologna. Il nero si faceva i cazzi suoi, dispensando qualche sorriso. Ogni tanto chiudevo gli occhi, ma l'adrenalina del viaggio, dell'incontro prossimo, mi teneva abbastanza sveglio. Viaggiavo con il gel nella mia tracolla di cotone. Quella sarebbe stata l'ultima volta in vita in cui avrei usato il gel. Alle 4 eravamo arrivati a Padova. "Arrivederci, padre", avevo detto al prete, dandomi un tono serio e fuori luogo. Cazzo ero un ragazzino. Probabilmente mi ero persino sbarbato. Ma non me lo ricordo. Alle 5 eravamo rimasti un'ora fermi a Venezia. Avevo scambiato due parole in francese con il tipo. Ma non mi ricordo da che nazione venisse. Era tranquillo. Chissà che fine ha fatto. Incontriamo persone sui treni, che poi scompaiono dalla nostra vita. Mica c'era facebook allora. Mica c'era twitter. Del resto, spariscono dalla nostra vita anche le persone che amiamo. Figurati quelle degli scompartimenti di trenitalia.

Poi alle 6 ero arrivato a Treviso. Eccola era lì. Finalmente camminavo e mi orientavo per le vie della maledetta città. Vedevo l'orribile palla di ferro vicino alla stazione, il Sile, i bar. Vedevo le aiuole e per la prima volta, una città italiana, pulita, e piacevole. Ero al nord, insomma. Giravo per le vie  con fare esperto, seppure non avessi la minima idea di quel che dovessi o potessi fare. Mi riempivo di caffè. Mi ero lavato il viso alla fontana, tra gli sguardi attoniti dei passanti benpensanti. Dispensavo loro i miei migliori sorrisi ironici. Stavo affinando la tecnica che col tempo sarebbe diventata arte. 
Poi l'ufficio turistico aveva aperto. Mi avevano dato la mappina verde di Treviso. Avevo cominciato a girovagare con senso. Ero andato al mercato, credendo di scorgere sua madre in ogni donna bionda sui 45. M'ero seduto a leggere la Repubblica. O forse era il Manifesto. Mi piaceva fare il tipo di sinistra, allora.
Poi l'avevo chiamata, mentre ero davanti all'ufficio dell'immigrazione.

Sono quì
Quì dove?
Indovina
Cosa cazzo dici
Eh oh
Perché, perché
Volevo vederti
Non dovevi
Ora però son qua
Allora vattene
Ma perché?
Non possiamo, non possiamo

La telefonata era finita. Sembrava che fossi atterrato in padania, a 600 km da casa mia, senza motivo. In futuro avrei fatto di peggio, finendo a 12.000 km da casa, nel continente sbagliato, al momento giusto, per la donna sbagliata. Ma il futuro era lontano. Il futuro ancora non si vedeva. Il futuro era come avrei passato tutta la giornata a Treviso, incazzato per un rifiuto incomprensibile, e senza poi tutta questa voglia di riempirmi di spritz all day long. Avevo mandato un po' di sms a gente a caso. M'ero accorto che le ragazze di Treviso mi guardavano. Era la prima volta che prendevo un po' consapevolezza che non ero poi tanto male. Anzi. Avevo scambiato un po' di sms con Elisa. Ricordo male i testi. Ricordo male tutto. Ero giovane, dopotutto, no?

Poi però lei, mossa pa passione, pietà e rimorso, aveva acconsentito al vedermi. Ma avrei dovuto aspettare che i suoi fossero andati via. Ero arrivato alla via di casa sua alle 20.00 - scendi alla fermata delle scuole elementari, chiedi all'autista. Poi attraversa la piazza e gira a sinistra, dopo il ponte -.
Non trovavo il cancello. Giravo senza senso.

"Ma non lì, qui!"
Era la sua voce.

Avevo trovato il cancella ed ero entrato. Le indossava una maglietta grigia. C'era la coca cola sul tavolo. Avevamo parlati vagamente imbarazzati. Ci eravamo baciati dopo un po'. E' dura la vita del 18enne, la vita del ciclista che viaggia sui treni, del lettore di libri in piena formazione che arriva a Treviso. E' dura la vita di un ragazzo emotivamente immaturo. Lo ero. E lo sono ancora.  E' dura la mia vita.

Dopo 2 ore di baci scemi, e frasi dolci me n'ero andato. Sorridevo. Era notte, ed ero su una strada provinciale, a piedi. Non sapevo come orientarmi. Avevo il treno per Roma poco dopo. Girava a caso. Perso sia nei movimenti che nella testa, tale era stata l'emozione. Nessuno in grado di darmi una indicazione. Poi alla fine avevo fatto l'autostop. Un tipo mi aveva salvato, davvero. Era andato come un pazzo, e la mia mancanza di personalità mi aveva impedito di allacciarmi la cintura di sicurezza.
Alla fine ero arrivato alla stazione, le avevo mandato un paio di sms ed ero salito sul treno per Roma. Non ricordo chi fosse nel mio scompartimento. Però, mentre chiudevo gli occhi per la stanchezza, ricordo ch'ero felice. Già. Ricordo solo una sensazione di felicità vitale, come solo l'inizio dell'amore sa darti. Come solo l'amore dei giovani scemi può dare.

Quasi 9 anni dopo, erano successe un sacco di cose.

Ed ero finito a scrivere un post, sul mio blog, per il giorno del compleanno di Elisa.

giovedì 24 marzo 2011

The Fighter



Micky Ward è un  pugile che vive nell'ombra del mito di suo fratello Dickie, ex pugile, tossicodipendente e suo allenatore. Dovrà trovare il giusto distacco per potersi finalmente affermare, in ogni campo.

Il cinema è pieno di film sulla boxe, di solito abbastanza riusciti. Anche in questo caso, la pellicola di David Russell, conferma la regola. Certo non è Racing Bull, e forse non vale, sul piano dell'enfasi drammatica, Cindrella Man, ma il film è godibile e di qualità. Incentrato sul rapporto tra i due fratelli, entrambi fragili e destinati ad avere un senso proprio solo in virtù dell'esistenza dell'altro, il film mantiene sempre il ritmo abbastanza alto, senza mai calare di qualità. Non ha paura il regista nell'affrontare temi complessi come quello della famiglia, del riscatto, della voglia di non mollare. In particolar modo la famiglia Ward viene rappresentata senza fronzoli: madre oppressiva, padre premuroso e senza personalità, sorelle megere, fratello istrione e crackomane. Tutti, a modo loro lontani dalla realtà. Sì può essere oppressi e buttar via la propria vita (e la propria carriera) per il troppo amore ricevuto? Sì può soffocare, perdere i propri tratti distintivi, non riuscire ad emergere solo per l'affetto riposto in modo sbagliato da parte della propria famiglia? A quanto pare sì, finché non ci si decide a dare una sterzata.

La salvezza di Micky, allora, una volta incassata una umiliante quarta sconfitta consecutiva, e quando è vicino al ritiro, passa per Charlene (una viva ed intensa Amy Adams), barista tradita dalla vita, ma con (ancora) la voglia di mettersi in gioco.

Attori ottimi, ma una citazione d'obbligo va a Christian Bale che confeziona una delle sue più grandi interpretazioni: è davvero straordinario. Notevole anche come sia riuscito a modificare il proprio fisico, fino a farlo aderire in modo totale al tossico fallito, dipendente dal crack. Buona anche la colonna sonora, e l'ambiente della città di provincia americana.

L'happy end trionfale, tradisce leggermente lo spirito libero e senza manicheismi della pellicola: è un peccato.

Voto: 7/10

domenica 20 marzo 2011

Una lettera che viaggiò per 10 anni

Non so se ho la dote del permettere alle persone di tirare fuori il peggio di loro, con me.
Non lo so. Comincio a crederlo, però.
Probabilmente anch'io sono pesante da accettare. Sono mediocre e tediante. Sono noioso, pungente e non di buona compagnia. Ho un carattere meschino. Non lo so. Sono egoista, non nel senso stratto del termine, ma in quello più profondo, nascosto. E pericoloso. Sono un talentuoso buono a nulla, davvero. E' persino appagante esserlo. Avere un po' di talento per quaqsi tutto, ma non essere in grado di far nulla.

Ma a volte mi chiedo perché. Perché succedono le cose intorno a me. O perché non riesco ad interpretare con leggerezza un po' scema e un po' enfatica tutto quel che si muove vicino a me. Perché non riesco.

***


Perché una persona che conosco da 10 anni, mi dica che nn ha più intenzione di rivolgermi la parola, solamente perché avendo ricevuto una sua lettera, dopo 8 anni,  non ho voluto leggerla pieno di birra alle 22.40, ma ho deciso di non aprirla nemmeno, riservandomi il piacere di farlo per il giorno successivo. Davvero. Non è nemmeno una reazione spropositata, è senza senso. Almeno ai miei occhi.
E non posso nemmeno fare il commentino acido: "si vede che non aspettava che una scusa per troncare il rapporto", perché non è vero. E sarebbe terribilmente ingiusto nei suoi confronti, che più d'una volta m'ha buttato un salvagente, mentre annaspavo tra i vortici dell'oblio. E allora?

E'  una persona che ha convidiso da protagonista un pezzo della mia vita, anni di formazione, anni di cambiamento, anni di amore, di odio, di ripicche, di entusiasmi.  E' una persona che ha poi condiviso, da spettatrice atuorizzata, ciò che mi succedeva. Le donne nuove ed i dolori. Il lavoro e l'università. Le cadute ed i tentativi di risalita. I successi ed i momenti di felicità allo stato puro e senza senso.
Allora perché devo privarmi delle sue parole, dei suoi messaggi, della sua voce? Perché ho deciso di allungare il piacere dell'attesa di leggere le sue parole? Perché sono io, e quindi non vado (mai) bene? Perché porto di me un qualche germe che conduce, immancabilmente al distacco?



***

E quindi, non capisco. Mi sveglio una domenica mattina, nel mio letto, bevo un caffè, e mi chiedo perché tutto attorno a me sia così strano. Persino le poche persone a me familiari.

E, non leggo la lettera.

domenica 13 marzo 2011

I fiori di Kirkuk



Quando l'amico Saddam, nel 1988 era ancora ben saldo al potere, e grande amico degli americani (e degli europei: il compagno Fini andò persino a trovarlo), si divertiva, nella pause della guerra con l'Iran, a gassare col nervino i curdi. Najla, giovane irachena che studia in Italia, torna a Kirkuk alla ricerca del suo fidanzato (curdo) Sherko scomparso qualche settimana precedente.

Film d'amore, film storico, film sociale, film documentario. E' tante cose insieme la pellicola di Kamkari, ed ogni compito viene assolto con bravura e qualità. Nel raccontare il ritorno di Najla in Iraq, il regista mostra come le strutture sociali siano pesantemente arretrate (l'Italia, in confronto viene mostrata come modello di sviluppo!), e come la bella, coraggiosa e determinata protagonista si ritrovi schiacciata dal maschilismo becero della sua famiglia. Najla non ha diritto, come il Kurdistan, all'autodeterminazione, e deve sottostare alle regole violente del più forte. Alle regole del potere costituito. Ma non si da per vinta, lottando, in nome dell'amore, dell'umanitarismo, della filantropia, contro la propria famiglia, ed il proprio paese. La sua tenacia nel voler salvare Sherko è ammirevole, spontanea e "femminile". Sembra quasi dirci, il regista, che di alcuni atti eroici, di certa perserveranza, solo le donne son capaci. E forse, è vero.
Il film scorre bene, malgrado le tematiche forti (finalmente però, una pellicola sul massacro dei curdi), la sceneggiatura è robusta ed esaustiva (con alcune piccole incongruenze), gli attori ben diretti (e Najla, Morjana Alaoui, bellissima). In alcune scene si sente l'eco di Garage Olimpo, bellissimo film argentino sulla dittatura ed i dissidenti, sulla crudeltà umana senza ragione e limiti. Nel vedere infatti, come vengono trattati i curdi, vien da chiedersi come possa essere l'essere umano in grado di compiere atti tanto miseri, biechi, animali. La risposta, purtroppo, non c'è.

Peccato che il finale scivoli un po' nella retorica. Ma a volte, forse, è necessario.

Voto 7/10

Un gelido inverno



Ree è una adolescente che vive nelle zone montuose del Missouri, mandando avanti da sola la sua famiglia. La madre è malata, i fratellini son piccoli, ed il padre è assente. Quando un ufficiale giudiziario le comunica che il padre ha usato la loro casa come cauzione per uscire di prigione e che se non lo ritroverà entro pochi giorni, l'abitazione le verrà sequestrata, la ragazza dovrà scontrarsi contro le regole e le logiche della comunità locale.

E' un bel film quello della Granik. Sì va per immagini, immerse nella stagione invernale, che è una dei protagonisti del film (impossibile non notare analogia con il bellissimo Frozen river). L'America che ci viene mostrata non ha nulla a che vedere con quella malinconica e cinica di Woody Allen,o lussureggiante e catastrofica delle mega produzioni hollywoodiane. E' un'America profonda, dura, selvaggia, retriva, nascosta. E quasi pionieristica, con i rapporti ancora fondati sull'appartenenza familiare, il rispetto dogmatico delle convenzioni sociali. E sulla violenza.
La giovane Ree non ha avuto il tempo di crescere, di formarsi: è stata subito confrontata alle asprezze della vita. Malgrado ci provi con tenacia non può ribellarsi con successo alla sua comunità, ma la sua tenacia verrà comunque premiata, anche se, ovviamente, manca un vero "happy end".

La regista ha fiducia nelle proprie capacità e non si cura dunque di spiegare quanto piuttosto di mostrare. La sceneggiatura è infatti volutamente scarna: non sappiamo di preciso cosa abbia fatto il padre di Ree, e le informazioni sulla comunità sono ridotte al minimo (anzi, all'osso): non importa spiegare tutto, quanto piuttosto mostrare i meccanismi della desolazione morale, economica e sociale nella quale si muovono i protagonisti. Scordiamoci colpi di scena (anche se in alcune parti il film ha dei tratti thriller), dialoghi scoppiettanti o inquadrature mirabolanti, la regista contraddice il Piccolo Principe: solo l'essenziale deve essere visibile agli occhi.
Bravo tutto il cast, da vedere. E da meditarci su.


Voto 7/10

domenica 6 marzo 2011

Triste sarà il giorno


Quando sono tornato dalla mia vita precedente e faticavo a



respirare
parlare in modo compiuto pensare guardare le persone non piangere ogni 5 minuti dormire

tutti eran pronti a dire che: "sarebbe passata" e sopratutto che: "un giorno la dimenticherai".

Triste sarà quel giorno. Triste sarà il giorno in cui mi dimenticherò di una persona ch'ho amato. Triste sarà la sera in cui sarò incapace di dedicare un pensiero ad una donna con cui ho dormito insieme per più di un anno. Triste sarà il momento in cui pensare ad una donna che m'ha emozionato, commosso, ferito, umiliato, non provocherà niente in me. Triste sarà il giorno in cui sarò uscito fuori da tutto.

Triste sarà quel giorno. Triste saranno quei minuti. Triste sarà stare nel mio letto, e poter vedere una sua foto senza più provare una fitta nel cuore. Triste sarà pensare di poterle telefonare e sentirne la voce senza provare dolore, incazzatura, odio, amore. Triste sarà il giorno in cui potrò rileggerne le lettere, come nulla fosse. Triste sarà il giorno in cui tornerò a pronuniciare il suo nome. Triste sarà il giorno in cui parlerò di lei come parlo del vicino di casa o di una tipa rimorchiata in un locale a 20 anni. Triste sarà il giorno in cui aprirò nuovamente la cartella delle foto e commenterò solo: "ma che belle foto facevamo insieme". Triste sarà quel giorno, e morto sarò io.

No, non voglio dimenticare niente, spiacente. Esco con un'altra donna, dormo con un altra donna, rido con un altra donna, immagino futuri alternativi con un altra donna, con altri occhi da fissare, fianchi a cui aggrapparmi, e capelli da ritrovarmi contro il viso al mattino. Sento il profumo di un altro corpo. Ascolto le parole di un altra. Ma non posso. Non posso dimenticare. Non sono nato per cancellare. Non respiro per porre nel volgare dimenticatoio del consumismo una persona per la quale mi sono dissanguato.

"Ma lei è una bastarda, non merita niente, non ricordi come t'ha trattato, offeso, ridotto, umiliato, ferito, mancato totalmente di rispetto?"

Ma certo che ricordo. Io ricordo tutto. Sopratutto i momenti atroci. Ma, spiacente, non arriverò mai a dimenticare la persona che fino ai 26 anni più mi ha toccato, stravolto, sconvolto, appassionato. Anche se ora quando mi riferisco a lei dico solo "la cagna", "la stronza", "la bastarda" , l"approfittatrice senza scrupoli". Anche se ora, mi accorgo di odiarla. Anche se le auguro ogni giorno di avere un fidanzato orribile, che la umili, che la tratti come uno schifo, che la scopi senza interesse e male, che le faccia rimpiangere ogni fottuto maledetto istante di avermi buttato nel cestino.

Sì sì. Sono Davenne, sono Bandini, io non dimentico nulla. Vado avanti, con difficoltà, ogni giorno. Mi amo senza allegria. E infilo i passi uno di fronte all'altro, mentre sotto la pioggia e senza ombrello, mi chiedo cosa io stia vivendo a fare. Triste sarà il giorno in cui comincerò a dimenticare.

venerdì 4 marzo 2011

Manuale d'amore III


Ho visto Manuale d'amore I a casa mia, anni fa. Si poteva guardare, se fuori faceva freddo, ed in casa nn c'era niente di meglio da fare. Ho visto il II al cinema Barberini, con la mia ragazza di allora (Chiara), ritenendolo vagamente insulso. Ma dato che la obbligavo (o meglio, la "invitavo") sempre a vedersi i miei film, mi pareva giusto vederne anche qualcuno che piacesse a lei. Ho visto il III, l'altra sera con Silvia (ogni tanto devo lasciar decidere i film agli altri). L'unica cosa positiva è che sono andato per la prima volta al cinema Reale. Sì, combatto una mia personale guerra con i cinema di Roma: voglio andare almeno una volta in tutti, prima di morire. Quindi mi debbo sbrigare.

30enne avvocato, prossimo alle nozze, riscopre la passione durante una trasferta di lavoro.
Stanco professionista televisivo si imbatte in una stalker ninfomane.
Vecchio 70enne si innamora della figlia di un suo coetaneo.

Sin dalla scena iniziale, in cui campeggia un Cupido ridicolo e moderno, che blatera frasi senza senso sull'amore, si capisce quale (non) sarà il tono del film. Tutto è raccontanto senza poesia, senza ricerca, senza passione. Tutto è piatto. Scene incollate una dopo l'altra, assenza totale di prospettive. Sembra una di quelle fiction che Rai1 manda in onda la domenica sera. Qual'è l'interesse per lo spettatore nel vedere Carlo Verdone interpretare un ruolo già visto in dozzine di altri film? E Scamarcio deve proprio far sesso in ogni film che fa? Ha davvero una solo espressione, come dimostra oramai da anni? Sull'ultimo episodio, con De Niro, è meglio stendere un velo pietoso. Vedere uno dei più grandi interpreti della storia del cinema, costretto a fare uno spogliarello con la Bellucci, e diventare amante e padre premuroso a 70 anni, non è solo pessimo cinema. E' quasi una cattiva azione.
E' davvero questo il "manuale" di cui abbiamo bisogno? Tradimenti, padri gelosi, sesso usa e getta, donne avvenenti, ripiegare sulle seconde scelte?
Sembra che il marchio De Laurentis, su un film, sia oramai sinonimo di totale assenza di qualità. Della solita assoluzione, comica, dei vizi degli italiani. In fondo, Manuale d'amore, è solo Vacanze di Natale in salsa romantica.

Si dice che dopo il terzo, il quarto vien da sé. Speriamo di no.


Voto 4.5/10

giovedì 3 marzo 2011

Do not believe in me


Non credermi quando ti parlo. Non sono io l'uomo che hai di fronte.
Non credere al bel ragazzo con la barba accorciata che ti sorride, è un bugiardo.
Non fidarti delle mie parole, dei miei silenzi, dei miei abbracci lanciati nell'autunno.
Non prendere per buona la mia onestà.
Quando ti parlo, apprendi a buttare nel cestino i verbi che uso a sproposito.
Quanto ti dico che non mento, sappi che lo sto facendo.
Quando guardi il mio corpo nudo e giovanile, tieni bene a mente che non è il mio.

Sì, non dico bugie con le parole, o con i fatti. Sarebbe troppo facile. Io mento non essendo me stesso. Io non sono io.
Io mento con la mia stessa esistenza. Il ragazzo che hai di fronte non è me. Io non sono nessuno.
Io mento interpretando. Io mento recitando un personaggio che mi rincorre nelle notti russe, buie, etiliche e maestose.
Io mente lottando con lui.
Quando mi vedi correre per i fori imperiali, ricordati che non sono io. Ricordati che i miei vestiti sono una maschera.
Ricordati che il colore della mia pelle è artefatto. Ricordati che i miei occhi sono traditori.

Quando ti dico con voce ironica che sono un grande mediocre, credimi.
Quando ti dico con un sorriso a mezza bocca che io mi definisco più per i mie fallimenti che per i miei successi, prendi le mie parole per buone.
Quando vedi la mia stanchezza nei confronti del mondo emergere con prepotenza geofisica, non credere i mi stia dando arie da maledetto. Sono io.
Quando mi vede leggere, da solo sulle scalinate del quartiere africano, senza vita e vitalità, sappi che sono io.
Sono io, il piccolo odioso borioso inconcludente meschino che beve con disinteresse il proprio caffè.

Non credere mai a ciò che vedi di me. Io non sono io.
Io non sono chi credi.
Dietro al mio altruismo pubblico si nasconde un piccolo essere miserabile, egoista, narcisista, egocentrico, violento.
Non credere i libri che ho letto abbiano fatto di me una persona colta. Non credere i film che ho visto mi abbiano reso sensibile.
Non credere che vagare senza meta sotto la pioggia faccia di me una bella persona.
Non credere io sappia scrivere poesie anche se i miei versi violentano i miei taccuini economici.

Ricordati queste parole: io sono un essere riprovevole. Io sono un cane. Io non sono io.

Che resti tra di noi.

mercoledì 2 marzo 2011

Insecta Linnaeus


All'inizio di America Oggi, un vecchio film di Altman (basato su una serie di racconti Raymond Carver - leggete Carver, leggete tutto quello che ha scritto -), una città viene innonadata di prodotti chimici. Vien spontaneo pensare che i suoi abitanti, i cittadini altro non siano che insetti.

***

Allora, metti che una mattina esci dal treno regionale nel quale sei stato stipato per oltre un'ora, e che ha percorso la sua tratta ad una media di 30 km/h. Metti anche che siamo nel 2011, in paese che, si dice, sia industrializzato. Metti che dal treno, alla stazione d'arrivo escano insieme migliaia di persone, che si ritrovano immediatamente compresse in un minuscolo corridoio . Strette, avanzano barcollando, perché è impossibile procedere in modo secco, diretto, podistico. E sempre più gli uni contro gli altri. Facce stanche, visi tirati dalla mancanza assolute di prospettive. Corpi che non hanno più il vigore atletico della gioventù e nemmeno la dignità della vechciaia. E come insetti avanziamo. Tento di cercare un corridoio alternativo, una via diversa, ma non c'è niente da fare. Quando vivi con gli insetti, quando respiri l'aria degli insetti, sei un insetto anche te.

***

E poi, metti che sei arrivato, finalmente, alla banchina dove attendere la metro. Metti che sono le 8.25 di mattina, ora di punta, ma passa solo una metro ogni 4 minuti. Metti anche che dall'altoparlante, la fredda voce metallica e burocratica, da prima repubblica, annuncia con tono insoddisfatto che il prossimo convoglio passerà tra tre minuti. Metti che allora, dopo quattro minuti di attesa, vieni informato che la prossima metro passerà tra due minuti. Metti che alla fine aspetti nove minuti la metro. Metti che riesci ad entrarvi dentro per miracolo. Ma che una volta all'interno non riesci nemmeno più a muovere le tue braccia, per quanto le persone - gli insetti - sono accatastate. Metti che ad ogni fermata ci vuole un minuto supplementare, perché le porte non si chiudono. C'è troppa gente. Troppi molluschi. Metti anche che le carrozze sono le stesse di 25 anni fa. Con gli anni sono però sensibilmente migliorate in sporcizia. Metti che alla fine del viaggio, esci fuori e puoi finalmente respirare.

***

Metti che allora capisci perché in questo paese di merda accettiamo tutto. Corruzione. Burocratica, amministrativa e di minori. Disonestà. Prostituzione fisica e morale. Totale assenza di regole civili, di sentire comune. Totale assenza di anticorpi contro il lassismo. A forza di esser trattati come insetti, ci pare normale esserlo. Di più: ci consideriamo come tali. Gli insetti non hanno diritti. Doveri. Costituzione. Gli insetti possono solo vivere finché è concesso loro. Gli insetti non possono amare. Gli insetti non hanno emozioni. Gli insetti non si indignano. Gli insetti non volano nemmeno. Al massimo agitano le loro sporche ali. Gli insetti latitano. Gli insetti popolano il loro habitat naturale senza dignità. Gli insetti sono, fondamentalmente, insetti.

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Metti che allora stavo parlando dell'Italia.Di Roma. E di me. E metti anche che il tutto è molto autobiografico.
E metti anche che avevo scritto il post, perché la mia ragazza m'aveva dato buca per fare colazione insieme.

S'era alzata tardi.

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