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domenica 19 maggio 2013

Come un venerdì sera (non) uccisi un mito




La costante della mia vita, dall'adolescenza in poi era stata quella (non che mi ritenga molto originale eh, appuro solo il fatto) d'aver sempre avuto idoli morti. Non lo facevo apposta: di qualcuno sapevo sin dall'inizio fosse passato a miglior vita, ma di altri no, e la delusione quando andavo a cercare la biografia (internet non c'era [non c'era a casa mia insomma], parliamo anche di fine anni '90) e leggevo: 'morto a *inserire nome città*, nel 19**' era sempre abbastanza marcata.

Avevo iniziato con Che Guevara (vabbè, lui lo sapevo che era morto), poi ero passato per Salvador Allende Ernico Berlinguer, non tralasciando insospettabili come Truffaut (grande fu il dispiacere, sapendo che era nato negli anni '30 nello scoprire che era morto nel 1984) o Bukowski: cazzo, morto nel 1994, ora, ad un ragazzo di 19 anni che comincia a leggere la sua roba, come può venire in mente fosse già morto da 7-8 anni? C'erano poi stati Primo Levi, John Fante, Ugo Tognazzi (cazzo!), tanto che ad un certo punto mi ero detto che probabilmente:

  • Portavo sfiga e se cominciavo ad ammirare qualcuno, questo moriva;
  • Il fatto che fossero morti, di cui io forse ero a conoscenza, tendeva a renderli migliori ai miei occhi e quindi a farne dei miti.

Fatto sta che abbandonata per decenza e troppa saccenza l'ipotesi di avere un idolo politico in vita (chi al giorno d'oggi?), e rassegnatomi ad amare terribilmente solo scrittori e registi morti, mi resi conto che però c'era una falla nel gioioso sistema di sfiga mortuaria che mi opprimeva: lo sport. 
Nello sport ci sono sì, le repliche, ma (ri)vedere una partita di calcio di 50 anni fa non è proprio come rileggere un libro già pubblicato o un film prodotto tempo prima. Con lo sport 9 volte su 10 il tuo idolo è tale perché lo diventa mentre è in attività e tu segui le sue gesta (insomma, le sue vittorie: se non vince mai nulla è raro diventi davvero un idolo).

Ora io, con mancanza assoluta di originalità, ero diventato un fan enorme del miglior tennista di tutti i tempi, nonché il più amato, ovvero Federer. Certo, ci ero arrivato dopo 2 decenni in cui seguivo il tennis ed ero passato per simpatie travolgenti verso altri tennisti (Agassi, Edberg e Kuerten), ma il risultato finale era stato che come tanti avevo iniziato ad amare Roger (e lo avevo amato ancora di più quando da dominatore assoluto aveva iniziato a perdere un po' più spesso, rendendolo un po' più umano ed imperfetto e quindi ancora più amabile ai miei occhi. Lo adoravo perché era il migliore (anzi, da qualche anno non lo era forse più), ma perdeva, soffriva, pativa alcuni confronti. Non riusciva sempre con la sola a classe a vincere contro i muri di cemento fascisti).

Federer era lì, da anni, stava finendo la carriera (penso ciò avverrà tra il 2015 ed il 2016) e io che l'avevo visto giocare decine (centinaia?) di volte in TV non l'avevo mai visto dal vivo. Dico MAI. E non c'era ragione dato che tutti gli anni veniva a fare il Torneo di Roma e giocava anche a Parigi. Ma io non andavo. Non era un timore reverenziale, non era paura dello shock della realtà (la TV filtra, insomma), non era per i soldi (un biglietto lo beccavi facile con 40€)  non era nulla, nemmeno pigrizia. Era solo idiozia. Aspettavo finisse la carriera per poi potermi dare dell'idiota in pubblico. Dell'incapace e sopratutto del mediocre che senza motivo aveva rinunciato ad un piacere vero ed un ricordo fantastico, senza apparente motivo. Forse solo per potermi dire insoddisfatto, tradito dalle mie stesse aspettative, che IO avevo fatto in modo non fossero state risolte.

Per fortuna tra idea e azione si frappose il fratello di #futuramoglie. 
E per una serie di fortunati eventi (la Sharapova che si era ritirata, #futuramoglie mezza morta già al letto, il venerdì sera senza pioggia, Federer programmato in notturna), mi ero ritrovato al Centrale, al Foro Italico, seduto sui gradini a vedere Federer contro Janowicz. Federer. 
Era lì. Non dico davanti a me, ma a 30 metri da me. In tutto il suo splendore. No, non mi aveva sorriso, non mi aveva visto, aveva giocato bene, ma senza cose meravigliose, ma l'avevo visto. Finalmente avevo visto con i miei occhi qualcosa di vivo che ammiravo. Avevo visto la migrazione di un popolo, Effetto Notte mentre veniva girato, Bukowski ubriaco al bar che dava della puttana alla mia ragazza, Berlinguer a Padova, Allende asserragliato alla Moneda mentre Pinochet rideva freddo, avevo avuto la mia piccola fugace e mediocre epifiania. Ed era stata bella, memorabile e senza stonature.

Federer aveva vinto (6/4 7/6), io ero tornato a casa poco dopo, lei dormiva, e per una volta avevo chiuso gli occhi soddisfatto di me e di quel che era ruotato attorno alla mia vita nella giornata appena morta.
Due giorni dopo avrebbe perso la finale contro Nadal. Ma io non c'ero.

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