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domenica 25 novembre 2012

Avanti pop




Ero andato a vederlo sperando fosse un bel film. In realtà s'era rivelato un po' deludente e senza troppo senso. Le altre persone in sala erano rimaste deluse (io ero solo). Eppure per me aveva assunto significati soggettivi e inimitabili: le vie di San Paolo (o era un'altra città?) erano così simili a come ricordavo io il Brasile: cemento, cortili recintati con steccati di ferro orridi, macchine nuove e vecchie, totale mancanza di gusto visivo. E riscoprivo quella lingua che (pur avendo amato) lentamente avevo dimenticato, ogni giorno una parola in meno. Mi divertivo a capire quasi tutte le parole (voce fala como uma pessoa com doença mental), a vedere le strane cabine telefoniche (mica disegnate male, però), le fermate dell'autobus: ogni cosa era 2009 e quell'improvviso, strano e senza senso futuro che avevo costruito di fretta, appoggiandomi a niente che non fossero le mie forti braccia sospese nel vuoto.
Il film poi era finito, era iniziato il dibattito. Per un attimo avevo pensato di fare una domanda (in che lingua? Italiano? Inglese? Portoghese per fare il figo?), ma poi m'ero alzato ed andato via. Lei m'aspettava in libreria, qualche centinaio di metri più in là. Avevo camminato per un po', in una via buia e stranamente vuota (no: un sacco di foglie morte mi tenevano compagnia) e poi l'avevo vista.

Com'era il film?
Brutto, ma denso di ricordi per me.

Lei aveva sorriso, annuendo, in modo delicato e m'aveva dato un bacio. La serata era appena iniziata.

domenica 11 novembre 2012

25 Dicembre 1991



La macchina s'era parcheggiata sulle strisce pedonali, senza problemi. L'arredo urbano e le indicazioni stradali - quegli orribili pali metallici, insomma - che insozzavano tutta la via, era anche stato ricoperto di adesivi, tanto per dare un tono di schifoso al disdicevole. Il corridoio della stazione odorava ferocemente di disinfettante, come fosse la sala operatoria d'un ospedale militare americano mal attrezzato di Saigon. I monitor non segnavano treni in partenza, né in arrivo. Nulla si muoveva, tutti partivano, tutti arrivavano. Alle panche della banchina erano state asportate le assi di legno: non ci si poteva sedere. C'erano orribili scritte fatte con lo spray ovunque, quelle che i benpensanti di sinistra chiamano "figlie del disagio giovanile" e io mera maleducazione animale, oltre che inciviltà. E cattivo gusto.
Il treno era sporco, a terra c'erano bucce d'arancia. S'erano seduti due ragazzi con il borsone militare e l'aria degli scemi. Erano militari, del resto, non si poteva chiedere troppo. Leggevo sul giornale di un tipo licenziato dall'AMA, dopo essere stato pestato dai colleghi, perché aveva denunciato le torture inflitti ad alcuni gatti. Il treno era arrivato in ritardo. Nella via per il ponte i pali della luce erano spenti e non si vedeva nulla. Si andava a senso, ad intuito. Con la luce del cellulare, con i rumori di sottofondo - baci, lucertole, delinquenti - e la forza dell'abitudine.
E ad ogni passo (i sampietrini erano stati divelti, c'era il rischio di rompersi una gamba: non c'erano soldi per rifare il manto, non c'erano soldi per la luce pubblica: i fondi bastavano solo per lo stipendio dei consiglieri comunali e dei netturbini giustizieri dei gatti) aumentava irrefrenabile l'estasi d'aver buttato tutto per un qualcosa di migliore che non era mai davvero esistito. E Gorbachev non se la passava bene, oramai.

martedì 6 novembre 2012

Il giorno eroico in cui feci 6 miglia




Allora ero al centro commerciale e giravo per l'IKEA. Letti, librerie, coppie sfatte ed in divenire (no: non credo sia un buon ambiente per beccare una), e lei magicamente saltellava da un salone all'altro. Non avevo fatto 500 miglia per ritrovarmela davanti (magari, avevo rinunciato a farlo, verso altre destinazioni), eppure ero comunque sfinito. Sfinito in quel modo in cui ci si sente quando si ha la percezione di star compiendo qualcosa più grande di sé, benché rientri nell'ordine naturale delle cose. Non è importante scegliere una cucina (ad induzione, diamine!), un frigorifero bello ad argentato (col dispenser per l'acqua? o fa da cafoni?), un piano da lavoro per la cucina. Non è fondamentale né difficile farlo. Eppure sembravano cose d'un altra dimensione. Io che giravo per i corridoi incrociando quelle donne stanche, ma venate d'improvviso entusiasmo, oppure piene di vita, che vedevano l'imminente opportunità d'una felicità a portato di mano, e quindi ancor più rischiosa. O che contravvenivano alle mie teorie appena declamata e cercavano un tipo agile e carino da sbattersi nei cessi (finti) del gigante svedese.

E tra un corridoio e l'altro dovevo frapporre tra me ed il mondo (gli altri, l'enfer) quella leggera ed invisibile patina di cemento, che permetteva di ripararsi da vite che non erano la mia e l'empatia da dimostrare a chiunque. Potevo distendermi su un letto che non sarebbe mai stato il mio, lucidare un immaginario piano cottura e sfogliare libri svedesi di cui non conoscevo la trama, ma il finale. Lei guardava, rideva, si aggiustava leggermente gli occhiali, come sa da un secondo all'altro avesse dovuto fare scelte fondamentali e non le metteva poi tanta paura l'idea di sbagliare, a patto che l'errore fosse condiviso e comportasse la mia trascurabile presenza.

Poi eravamo andati a vedere i piatti.

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