La macchina s'era parcheggiata sulle strisce pedonali, senza problemi. L'arredo urbano e le indicazioni stradali - quegli orribili pali metallici, insomma - che insozzavano tutta la via, era anche stato ricoperto di adesivi, tanto per dare un tono di schifoso al disdicevole. Il corridoio della stazione odorava ferocemente di disinfettante, come fosse la sala operatoria d'un ospedale militare americano mal attrezzato di Saigon. I monitor non segnavano treni in partenza, né in arrivo. Nulla si muoveva, tutti partivano, tutti arrivavano. Alle panche della banchina erano state asportate le assi di legno: non ci si poteva sedere. C'erano orribili scritte fatte con lo spray ovunque, quelle che i benpensanti di sinistra chiamano "figlie del disagio giovanile" e io mera maleducazione animale, oltre che inciviltà. E cattivo gusto.
Il treno era sporco, a terra c'erano bucce d'arancia. S'erano seduti due ragazzi con il borsone militare e l'aria degli scemi. Erano militari, del resto, non si poteva chiedere troppo. Leggevo sul giornale di un tipo licenziato dall'AMA, dopo essere stato pestato dai colleghi, perché aveva denunciato le torture inflitti ad alcuni gatti. Il treno era arrivato in ritardo. Nella via per il ponte i pali della luce erano spenti e non si vedeva nulla. Si andava a senso, ad intuito. Con la luce del cellulare, con i rumori di sottofondo - baci, lucertole, delinquenti - e la forza dell'abitudine.
E ad ogni passo (i sampietrini erano stati divelti, c'era il rischio di rompersi una gamba: non c'erano soldi per rifare il manto, non c'erano soldi per la luce pubblica: i fondi bastavano solo per lo stipendio dei consiglieri comunali e dei netturbini giustizieri dei gatti) aumentava irrefrenabile l'estasi d'aver buttato tutto per un qualcosa di migliore che non era mai davvero esistito. E Gorbachev non se la passava bene, oramai.
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