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martedì 28 agosto 2012

Lasciare, eternamente lasciare




Era da tanto che non lasciavo più un posto.
L'Austria, il Brasile, la Germania, Belfast. Mettersi alle spalle un (presunto) stato idilliaco per tornare alle rozze abitudini quotidiane, al precariato, allo stato di insoddisfazione generale, alla lenta morte cui il paese, la città, l'Italia costringe. Lasciare giorni in cui tutto sembra scorrere con perfezione, per compiere l'eterno ritorno.

Ma prima ancora degli ultimi posti lasciati erano venuti i primi.
Le vacanze in Francia degli anni '80 e '90, quel momento di ingenua felicità, in cui anche i giovani dolori d'un bambino di pochi anni parevano risolversi. Si correva nel verde, il treno era il mezzo che portava in un passato idilliaco. Mezza famiglia era lì, e per fortuna c'erano né occhi, né orecchie per capire problemi, asti, litigi, odi covati per lustri. Ed al momento di andare via, alla fine dell'estate, la gola era sottoposta a pressione sempre più stringente, le lacrime erano trattenute sempre più a stento, e la bocca sempre meno sorridente. Era in atto un dramma, un dramma da bambino: quindi senza soluzione. Senza appiglio al tempo, la carriera, la macchina da comprare, il sesso, un nuovo libro di Saramago o un viaggio per Sofia. Non c'era niente a cui aggrapparsi: regnava il silenzio, e l'attesa del prossimo ritorno. Sarebbero passati mesi,anni e tutto per qualche giorno sarebbe stato di nuovo sospeso.

Ora però si tornava a casa. Quella sbagliata, dato che non ce n'era mai una che coniugasse ogni cosa, lingua, cultura, paese, cartoni animati, famiglia. Ovunque, prima ancora di nascere, c'erano divisioni, posti da accettare e altri da dimenticare, famigliari da vedere di persona, ed altri solo in foto. I confini erano uno stato della mente.

E ieri lasciavo di nuovo.
Via dalla brutta città senza fascino dove nacqui, via dalle infinite campagne e distese, via dalla cattedrale, via da un pezzo di famiglia, via dai cibi e dagli odori piccardi, via dagli autobus (papà, ma qui gli autobus hanno gli orari, che strano), via da tutto.

Eppure sono passati più di 20 anni ed il tipo di lutto permane lo stesso: la dolorosa coscienza di dover accettare qualcosa più grande di sé stessi, senza una vera ragione.

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