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martedì 24 aprile 2012

Cronache da Belgrado



Stavamo a Belgrado. Facevamo solo viaggi non eccessivamente convenzionali (Belfast, Breslavia, Cracovia), non tanto per darci un tono, quanto perché così eravamo sicuri di evitarci orde di turisti scemi. E vedevamo città diverse dalle solite. Nel caso di Belgrado, brutte.

Già, l'ex capitale della Jugoslavia ricordava più i sobborghi di Istanbul ed i quartieri del centro di Atene che le altre città dell'Est Europeo. Vabbè: questo non ci interessa poi tanto. Nel corso dei 4 giorni passati in Serbia avevamo appurato che:

  • I serbi amavano mettere poliziotti ben armati ogni 10 metri;
  • Gli stessi poliziotti amavano guardarti in modo poco friendly;
  • La cortesia non era generalmente di casa (salvando però un povero impiegato del ministero delle poste che in un inglese pre-approssimativo si era dannato per indicarci dove poter trovare l'ufficio postale più vicino - a Belgrado gli uffici postali sono invisibili -);
  • Dire "three hundred" era un'impresa complessa per l'autista dell'autobus:
  • Anche lì i turisti italiani erano un bel mix di coattume, stupidità, voglia di figa in offerta e ingenuità;
  • Chiedere aspirine pareva equivalere a parlare dei crimini di Milosevic;
  • Gli abitanti del posto correvano tutti in modo strano;
  • I serbi forse non adoravano gli altri esseri umani, ma amavano invece i loro cani.

La GF era ancora più turbata di me. Le vie slave, ed i cibi locali avevano avuto l'effetto dirompente di modificarle il funzionamento dei neuroni. Nel giro di pochi giorni ero riuscito a beccarmi del "vecchietto raccapricciante" e del "solito sfigato". 
In compenso io affondavo la lama nelle sue carni: era persino troppo ovvio farmi burle di lei e del suo modo personale ed intimistico di recensire i posti su TripAdvisor: "è il posto che mi è piaciuto di più", "qui la carne è DAVVERO buona". O del modo tutto suo che aveva di dirmi: "non sono per nulla stanca", per poi addormentarsi vestita su una poltrona, mettendo in dubbio la mia (antica) virilità al risveglio.
A colazione oramai si riempiva piatti giganti di cibo, incolpandomi: "eh, ma ho visto che ti prendevi un sacco di roba, poi ti credo che lo faccio anch'io!".
Tra l'altro le sue interminabili sessioni di trucco e la presenza della TV via cavo, mi avevano permesso di diventare, nell'ordine:

  • Dottore in malattie ossee;
  • Esperto delle cause degli ultimi 20 disastri aerei;
  • Patito di cucina sudamericana;
  • Abile nel cacciare marmotte nel deserto messicano;
  • Padrone della tecnica del ricamo;
  • Cultore dei reality show americani pieni di zoccole.

Ma poi dopo un po' usciva sempre, bella, sorridente e diversa e potevamo infine camminare. Di lì a poco mi avrebbe scritto una dedica sul libro di Bukowski che mi aveva comprato. E saremmo tornati a casa insieme, tenendoci per i mignoli.

Di quel panzone italiano di mezza età, che seduto ad un tavolo di fronte a noi in un ristorante, aveva parlato (in un linguaggio che era un mix di napoletano e romano intriso della salsa dell'analfabetismo) mezz'ora al telefono di caponata e del piacere intenso che la defecazione provocava in lui, avrei scritto un'altra volta.

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