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lunedì 2 gennaio 2012

Oramai gli alberghi usano tessere magnetiche al posto delle chiavi


C'erano i prati, ma era tutto buio e non potevo vederli. Il tassista parlava di scommesse sul calcio, l'iPhone era adagiato sulla destra a perenne monito della presenza della modernità: le app erano lì, pronte ad uccidere qualsiasi vano sentimento di libertà. C'era il ragazzo con cui avevamo preso il taxi che diceva un po' di stronzate, ma sembrava dirle bene. C'erano i cartelli stradali finalmente scritti inglese, anche se le indicazioni non mi dicevano proprio niente. C'era lei che guardava di fronte a sé in modo vagamente regale, come fosse una regina africana spodestata dal trono, e che viveva le sue giornate in preda ad un'ironia dolce e controllata. C'erano i minuti che passavano veloci: e poi stavo all'estero e quindi scorrevano ancora più implacabilmente. C'era una vecchia canzone inglese che passava alla radio, che mia sorella aveva particolarmente amato quando era al liceo. C'ero anche io, vagamente intrappolato in una strana - funny - felicità, di cui forse conoscevo l'origine, ma che era ancora difficile da gestire. Era troppa la facilità con la quale collegavo il corpo ai neuroni, i neuroni allo stomaco, le viscere al cuore, le aorte alle gambe. Troppa. E c'era l'ansia, finalmente benefica. Poi arrivammo davanti all'entrata, il bar interno era chiuso - benché sembrasse aperto - e non restò altro che farsi dare le chiavi. 

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