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lunedì 17 ottobre 2011

L'altrui dolore



Ero atterrato 1 ora prima. Ora camminavo per Merkela Iela, tentando di orientarmi. L'hotel era ad un paio di KM e avevamo deciso di andare a piedi. Guardavo soddisfatto le facciate degli edifici in stile liberty, come se il solo fatto di osservarli facesse di me una persona migliore. Non ero particolarmente preoccupato - le notte lettone era sì, straniera, ma non particolarmente ostile - e cercavo punti di riferimento. Poi avevo trovato il verso: la vita sarebbe proseguita dritta per un po' e poi avremmo svoltato a destra. E camminavo, con la mia valigetta al seguito, fedele e ridicola come un cane sovietico durante l'occupazione nazista.
Sulla sinistra c'era una fermata dell'autobus. Signori che tornavano a casa, ragazzi che scherzavano, un paio di donne parlavano al cellulare. E una coppia discuteva. Lei leggermente più bassa di lui con lo sguardo sicuro e nostalgico. Stavano una di fronte all'altro, lui le stava posando una mano sulla spalla. E i visi si contraevano sempre di più. E dopo qualche secondo lei era scoppiata a piangere. Le lacrime risaltavano i suoi capelli biondi. Lui allora l'aveva abbracciata tentando di riparare qualcosa di inconsolabile. Non c'era più nulla da salvare, il danno ero fatto. Qualcosa di invisibile agli occhi di 7 miliardi di persone meno due, s'era spezzato. Io ero passato oltre. Era troppo insopportabile dover realizzare che c'era dolore anche al di fuori di Roma e dell'Italia. Che c'erano quindi sofferenze ad anima in pena ovunque. Che infiniti piccoli (e quindi enormi) drammi quotidiani si consumavano in ogni parte del mondo, mentre te eri preso solo a bere una birra o a fare il cretino con una ragazza incontrata 4 anni prima ad una festa alla quale non volevi andare. C'era una ragazza lettone che piangeva, mentre io scorrevo come un ratto in vie che non erano le mie. C'erano lacrime che cadevano anche nei paesi baltici. C'era vita, anche al di fuori della mia tiepida stanza.

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